«La ricerca, una crescita per l’Istituto zooprofilattico»

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Presentati in Promocamera i progetti conclusi nel 2013 dagli esperti dell’ente.

IzsSardegna_Un momento del convegno (1024x685)SASSARI 12 giugno 2014 – Quasi 6,5 milioni di euro di finanziamenti ricevuti per portare avanti progetti finalizzati a dare risposte sullo stato sanitario delle popolazioni animali, del benessere animale e per la sicurezza degli alimenti. Quindi ancora, nel solo biennio 2012-2013, sono stati investiti 3 milioni di euro da fondi propri dell’Izs per la ricerca, ai quali si sono aggiunti altri 3 milioni per investimenti in tecnologie e attrezzature all’avanguardia. Sono questi alcuni dei numeri che l’Izs Sardegna ha fatto registrare nella ricerca che rientra tra i suoi compiti istituzionali.

I dati, che mettono in luce quanto il settore trovi spazio all’interno dell’ente sassarese di via Duca degli Abruzzi e ricopra un ruolo strategico nella sanità pubblica, sono stati presentati questa mattina nell’auditorium della Promocamera di Sassari, a Predda Niedda, alla presenza del direttore generale Antonello Usai, del direttore sanitario Paola Nicolussi, del direttore amministrativo Giorgio Tidore e del presidente del cda dell’enteGiovanni Carboni. Si segnalano anche gli interventi di apertura di Francesco Sgarangella, direttore del Dipartimento di prevenzione dell’Asl di Sassari e direttore del Servizio di Sanità animale. Quindi anche diEugenio Maddalon.

«Questa giornata rappresenta un atto dovuto nei confronti degli operatori del Servizio sanitario nazionale e del territorio – ha detto il direttore generale dell’Istituto zooprofilattico sperimentale Antonello Usai – è costituisce anche un momento di crescita per l’ente perché favorisce lo scambio di informazioni utili per poter progettare ricerche sempre più attuali e rispondenti alle reali esigenze di salute del territorio». «Nell’ultimo biennio – ha ripreso Antonello Usai – l’Izs ha investito in ricerca oltre 3 milioni di euro dai propri fondi e ha consentito di dare anche risposte occupazionali con l’impiego di borsisti. Inoltre l’istituto ha investito 3 milioni di euro in attrezzature all’avanguardia utili sia alla ricerca che allo sviluppo di nuove metodiche e all’attività dei nostri ricercatori».

IzsSardegna_Antonello Usai (685x1024)«È compito nostro – ha concluso il direttore generale – attuare una politica finalizzata a favorire lo sviluppo della ricerca e la valorizzazione dei risultati, così da incoraggiare iniziative volte a rafforzare le capacità di attrarre risorse per il suo finanziamento».

Gli specialisti dell’Istituto zooprofilattico sperimentale, tra il 2012 e 2013, hanno quindi focalizzato l’attenzione su argomenti quali la malattia di Schmallemberg, attraverso una analisi epidemiologica, clinico patologica e virologica nei focolai diagnosticati in Sardegna, quindi ancora sono stati impegnati sulla documentazione delle caratteristiche di qualità e sicurezza dei prodotti alimentari della Sardegna; sulle indagini relative alla potenziale presenza di Ogm nella filiera biologica agricola in Sardegna; sulla realizzazione di un geo-portale nazionale a supporto delle attività veterinarie e, infine, sulla valutazione di efficacia e innocuità di un vaccino bivalente per la peste equina allestito con sierotipi 5 e 9.

Di finanziamenti hanno parlato Salvatorica Masala che hanno messo in evidenza come l’Izs Sardegna sia impegnato, nell’ambito di questo settore, nella ricerca finalizzata allo studio di problematiche generali e nellaricerca corrente più correlata alle tematiche territoriali. «Proprio in quest’ultimo campo – hanno fatto notare le due dirigenti – l’ente, tra il 2009 e 2013, ha ottenuto la quota più elevata di finanziamenti, quasi 4 milioni di euro, mentre nella ricerca finalizzata ha ricevuto fondi per oltre un milione di euro. Si tratta per la maggior parte di finanziamenti del ministero della Salute e, a seguire, di fondi derivanti da progetti europei o da altri progetti e in parte anche dalla Regione».

Tra il 2009 e il 2013 l’Izs, nell’ambito della ricerca corrente, ha guidato come capofila ben 36 progetti di ricerca e ha svolto il ruolo di unità operativa in altri 27. Nella ricerca finalizzata, invece, è stato capofila in un progetto di ricerca e ha “giocato” da unità operativa in 9 ricerche. A queste si aggiungono i sei progetti nell’ambito della ricerca regionale di base, uno in quella finalizzata regionale e 15 attività ricomprese tra progetti europei e altri progetti.

A questi, per lo stesso periodo, si aggiungono le numerosissime pubblicazioni, oltre 300, apparse sulle più prestigiose riviste scientifiche di settore.

Infine a giugno del 2014, l’Istituto zooprofilattico sperimentale è impegnato in 26 progetti di ricerca corrente(tra ruolo di capofila e unità operativa), in 5 progetti (tra ruolo di capofila e unità operativa) nella ricerca finalizzata, quindi in 2 nella ricerca regionale di base, in 4 tra progetti europei e di altra natura.

Nel settore della ricerca, in questi anni, sono stati impegnati a rotazione circa duecento esperti, tra dipendenti e borsisti interamente dedicati alla ricerca.

Hanno quindi fatto seguito otto relazioni tecniche, incentrate sui progetti di ricerca chiusi nel 2013 e che hanno visto gli esperti dell’Izs Sardegna impegnati nello studio delle malattie degli animali da reddito e selvatici, nell’analisi delle acque del lago Alto Flumendosa per la presenza di cianotossine, sullo studio del rischio microbiologico e chimico nelle chiocciole del genere Helix e sulla sicurezza alimentare.

LE RELAZIONI

La parte tecnica del convegno, che ha da subito messo in luce il lavoro svolto dagli esperti dell’istituto di via Duca degli Abruzzi, è stata aperta da Ciriaco Ligios e Caterina Maestrale (“Sviluppo di un sistema integrato per l’analisi di routine della frequenza degli alleli resistenti alle scrapie nel latte e nei formaggi ovini – Siscra”) che hanno spiegato come l’obiettivo della loro attività di ricerca e sperimentazione, svolta a stretto contatto con i colleghi dell’Istituto Spallanzani, «è lo sviluppo e l’attuazione di un sistema integrato per l’analisi di routine della frequenza degli alleli resistenti alla scrapie nel latte e nei formaggi ovini». La scrapie è una malattia che fa parte del gruppo delle encefalopatie spongiformi trasmissibili (Est) ma non è ancora stato dimostrato un rischio diretto per l’uomo. Gli organismi competenti dell’Unione europea tuttavia continuano a monitorare i possibili rischi per la salute umana legati alla malattia. «L’organizzazione di un servizio di autocontrollo da parte della filiera produttiva – affermano Ciriaco Ligios e Caterina Maestrale – ha lo scopo di stimolare il perseguimento dell’obiettivo di aumentare i genotipi resistenti e di produrre partite di formaggio ad alta sicurezza nei confronti di un eventuale rischio scrapie. In tale ambito si inserisce l’ideazione di un sistema premiante all’interno di in un programma di promozione della qualità e della sicurezza del latte per gli allevatori».

A preoccupare gli esperti del settore però è anche la tubercolosi bovina, malattia infettivi che rappresenta uno dei maggiori problemi sanitari per gli animali da reddito. L’agente responsabile, il Mycobacterium bovis, è strettamente correlato al Mycobacterium tuberculosis causa della tubercolosi nell’uomo, malattia infettiva tra le più antiche che ancora oggi colpisce una parte consistente della popolazione mondiale.

«In Sardegna – hanno detto Maria Nicoletta Ponti ed Edoardo Marongiu nella relazione Tubercolosi in Sardegna: nuovi e recenti aspetti conoscitivi e di ricerca – a seguito di un’importante e inaspettata epidemia di tubercolosi verificatasi tra il 2007 e il 2008, l’isola ha perso la qualifica di regione ufficialmente indenne (Ui) acquisita nel 1998. Tale emergenza sanitaria verificatasi nel Goceano, è stata gestita in maniera integrata attraverso la predisposizione e la messa in opera di una serie di azioni».

Da quest’ultimo evento ha preso il via la ricerca condotta dall’ente e illustrata da Stefano Lollai e Giuliana Pitzianti “Tubercolosi in Sardegna: approfondimenti diagnostici ed epidemiologici in specie domestiche e selvatiche. Analisi retrospettiva della patologia nel nostro territorio”. «Studi recenti – hanno detto i due dirigenti veterinari – hanno richiamato l’attenzione sul ruolo giocato dagli animali selvatici come reservoir e possibili diffusori dell’infezione. La ricerca ha sì posto la sua attenzione nel periodo che coincideva con l’attenuazione dell’emergenza tubercolare in Goceano. Ma il progetto ha potuto anche rivedere i risultati degli anni precedenti analizzando i dati dal 2005. Sono stati analizzati così anche numerosissimi campioni di cinghiali provenienti dalle campagne venatorie degli anni di emergenza tubercolare.

«Dalla ricerca – hanno proseguito Lollai e Pitzianti – è emerso che il ceppo Mycobacterium bovis SB0120-BCG-like/75532 rappresenta il genotipo più frequentemente riscontrato e conservato nella zona centro-settentrionale della Sardegna, dove si manifesta anche a distanza di anni. Gli isolati di Mycobacterium capraeprovenienti da Orgosolo, Mamoiada e Ussana mostravano tutti lo stesso pattern SB0120-BCG-like/53545indicando un possibile scambio di animali nelle zone prese in esame. Nel caso dei cinghiali sono stati frequentemente isolati anche mycobatteri Nontuberculosus Mycobacteria (Ntm) in corso di identificazione tramite sequenziamento».

Agnese CannasSimone Dore e Carla Longheu hanno illustrato invece una relazione sugli “Stafilococchi coagulasi negativi (SCN) responsabili di mastite: identificazione di specie e dei fattori di virulenza, valutazione della risposta immunitaria e delle produzioni su pecore in lattazione in seguito ad infezione sperimentale”.

«I risultati di questo progetto – hanno detto i tre dirigenti – evidenziano come Staphylococcus epidermidis rappresenti la specie più frequentemente isolata e con impatto notevole sulla qualità delle produzioni in termini di incremento di CCS (Leitner et al.,2004) e sulla quantità del latte prodotto, sebbene quest’ultimo aspetto si sia dimostrato limitato nel tempo. Inoltre, la presenza dei fattori di patogenicità condiziona il decorso della patologia sia in termini di intensità dei sintomi che di persistenza dell’infezione. Probabilmente, le manifestazioni attribuite ai microrganismi appartenenti al gruppo di SCN differiscono non soltanto fra le diverse specie ma si osservano diversi gradi di patogenicità all’interno della stessa specie, in rapporto alla presenza o meno dei fattori di virulenza che necessitano di studi più approfonditi per stabilire, in modo più preciso, il loro ruolo nell’infezione mammaria. Pertanto – hanno concluso – l’identificazione di specie deve essere considerato un dato importante, utile alla elaborazione di strategie di controllo appropriate, migliorando nel contempo i protocolli di profilassi diretta».

L’esperienza del centro territoriale di Tortolì sullo “Sviluppo di un modello di analisi del rischio di contaminazione da cianotossine in occasione di fioriture di cianobatteri tossici nel Lago Alto Flumendosa” è stata illustrata da Piera Angela Cabras e Roberta Boi. Nella relazione è stato descritto il progetto di ricerca corrente IZS SA 04/10 RC dal titolo “Sviluppo di un modello di analisi del rischio di contaminazione da cianotossine in occasione di fioriture di cianobatteri tossici, ed eventuali riflessi sulle popolazioni animali domestiche e selvatiche e sull’ittiofauna di un lago della Sardegna (Lago Alto Flumendosa)”, svolto nel periodo compreso dal 15 settembre 2011 al 15 settembre 2013. «Il progetto di ricerca nasce in seguito ad una grave emergenza ambientale verificatasi in Ogliastra nel 2010 nel lago Alto Flumendosa – hanno spiegato le due relatrici – caratterizzata da un’imponente proliferazione del cianobatterio Planktothrix rubescens e dalla successiva moria di numerosi pesci». Nel corso dell’esposizione Piera Angela Cabras e Roberta Boi hannoparlato di cianobatteri e cianotossine, quindi hanno descritto le fasi salienti e i risultati della ricerca (già divulgati anche attraverso un convegno, degli opuscoli informativi e delle pubblicazioni scientifiche) al fine di sensibilizzare tecnici e opinione pubblica sulla gravità del fenomeno e sull’importanza del rispetto del territorio a salvaguardia dell’ambiente e della salute umana e animale.

Sebastiana Tola quindi ha introdotto la “Determinazione della vitalità del Mycoplasma agalactiae in campioni di latte ovino mediante immunocattura”. «Con questa ricerca – ha detto la dirigente – abbiamo sviluppato un nuovo metodo per rilevare la presenza di Mycoplasma agalactiae vivi. In questo studio, abbiamo applicato il metodo IMC-PCR anche a 516 campioni di latte provenienti da allevamenti con sospetta agalassia contagiosa. La sua performance è stata confrontata con quella ottenuta dalla semina dei campioni di latte in piastre di agar Hayflick, terreno selettivo per micoplasmi. Questa ricerca ha dimostrato, per la prima volta, l’uso di un metodo di IMC-PCR rapido e affidabile per evidenziare la presenza di Mycoplasma agalactiae vivi e vitali in campioni di latte ovino».

Hanno chiuso il convegno due relazioni sulla sicurezza degli alimentiLa prima, esposta da Paola Cogoni e Arianna Corda, ha incentrato l’attenzione sulla “Valutazione del rischio microbiologico e chimico in chiocciole del genere Helix spp di provenienza nazionale ed extracomunitaria, utilizzate a scopo alimentare”. La relazione ha messo in evidenza il fatto che la Sardegna registra un elevato consumo pro-capite di chiocciole, quasi otto volte maggiore quello registrato a livello nazionale. «Questi prodotti – hanno detto le due relatrici – rappresentano un’entità economica e produttiva con prospettive interessanti sia dal punto di vista commerciale che nutritivo, ma si evidenzia la carenza di una normativa di settore che definisca requisiti specifici per tali prodotti». Ecco allora che, attraverso lo studio, «si è ritenuto utile acquisire informazioni di natura microbiologica, virologica e chimica su chiocciole utilizzate a scopo alimentare in Sardegna e caratterizzare gli isolati mediante diverse metodiche». La ricerca ha portato a conclusioni interessante, evidenziando che «la contaminazione microbiologica, pur rappresentando un fattore di rischio, deve essere correlata alla tipologia di trattamento a cui l’alimento è sottoposto prima del consumo, e risulta evidente che un’adeguata cottura possa determinare l’eliminazione del pericolo. Per quanto riguarda la contaminazione chimica, i risultati segnalano come il cadmio rappresenti il maggiore fattore di rischio, ma tale dato non induce a ritenere che sussista un pericolo chimico per il consumatore, in quanto l’assunzione di tale alimento è saltuaria e legata solo a particolari abitudini alimentari locali».

«I dati rilevati – hanno concluso – necessitano comunque di ulteriori studi di approfondimento, ma da questo lavoro si evidenzia l’urgente necessità di inserire dal punto di vista normativo e a garanzia dell’alimento prodotto, prescrizioni su indici di qualità ambientale da rispettare nel caso in cui vengano richieste le autorizzazioni per la realizzazione di un’azienda elicicola».

La seconda relazione sulla sicurezza alimentare, esposta da Paola Cogoni e Stefania Collu, ha focalizzato l’attenzione sulla “Ristorazione etnica e sicurezza alimentare: valutazione degli aspetti igienico-sanitari e rischio per il consumatore di ready-to-eat”. La relazione ha dato prima uno spaccato della situazione in Italia, dove negli ultimi anni, come nella maggior parte dei paesi europei, si è avvertita un’amplificazione delle “nuove tendenze alimentari’’ dovute a significativi afflussi di comunità etniche che hanno portato al diffondersi del consumo di alimenti appartenenti a culture diverse. «Il fenomeno – hanno fatto presente le due relatrici – è in forte crescita anche in Sardegna e si è ritenuto opportuno realizzare un progetto che avesse l’obiettivo di valutare la qualità igienico-sanitaria di alcuni piatti pronti appartenenti alla ristorazione etnica e maggiormente consumati come Sushi e Kebab».

«Da un punto di vista microbiologico – hanno detto – si riscontra che per quanto riguarda la presenza di patogeni quali Salmonella spp e Listeria monocytogenes è rappresentata rispettivamente dal 2.3% e dal 7% dei campioni totali. Alcune specie di microrganismi (Klebsiella spp, Pseudomonas spp) isolati nelle diverse tipologie analizzate sono in grado di provocare una forma di intossicazione simil-allergica, variabile in dipendenza della sensibilità dell’individuo».

«Da questi dati – hanno concluso Paola Cogoni e Stefania Collu – emerge la consapevolezza che la contaminazione microbiologica è sempre correlabile alle condizioni igieniche degli esercizi di vendita, al tipo di confezionamento, alle tecniche di preparazione, alle temperature di conservazione, alla mancanza di un efficace sistema di HACCP e alla mancanza di conoscenze e formazione del personale addetto alla manipolazione. Tutto ciò rappresenta una base sulla quale approfondire l’aspetto igienico sanitario dei prodotti etnici e la loro conformità ai requisiti di legge, al fine di tutelare il consumatore».

 

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Andrea Bazzoni - Gestione Uffici Stampa
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